Exempla
I- Laide di Corinto, cortigiana, fu avvicinata, per ottenerne la grazie, dal grave Demostene. La prostituta, nota in tutta la Grecia per l’esosa bellezza, gli chiese in cambio diecimila dracme. La contrattazione fu brevissima: Demostene, spaventato, forse fulminato da un improvviso ritorno di balbuzie, se ne andò sbattendo la porta, e proclamando: “non compro sì caro il pentimento”. Il casto, ma certamente avaro, grande oratore, intendeva dire che, comunque, si sarebbe pentito: o d’aver sborsato tanto per un atto così inflazionato, o d’essersi piegato all’avventura con una venditrice di sé.
II- Riferisce Savinio (in Narrate, Uomini, la vostra Storia), che Teofrasto Paracelso guarì con tre pillole di laudano e in pochissimi giorni il canonico Cornelio Lichtenfels, tormentato da dolori violentissimi e da insonnia. Il canonico ricusò di pagare i cento fiorini richiesti dal celebre medico, “stimando che una guarigione così rapida non meritava l’onorario”. Mandò a Paracelso “sei miserabili fiorini”, accompagnati da questa leggenda: che il valore della propria vita “lui lo conosceva meglio di nessun altro”.
III- Una radicata tradizione scozzese pretende, che quando un avaro diventa improvvisamente liberale e generoso, è un segno che la morte sta per giungere a ghermirlo.
Così sostiene Walter Scott nel romanzo Il Pirata, ma sembra proprio una leggenda inventata dai Taccagni stessi, per discolparsi di fronte alla propria coscienza delle loro vergognose pratiche sparagnine.
IV- Non è separabile l’Avarizia dall’Avidità. Esse sono due facce dello stesso Vizio, e così le reputarono gli antichi. Sant’Agostino sancisce che avaro è “qui cupide servat sua”, come “qui rapit aliena” (Sermones, 107).
Sia il Taccagno, che il Rapace, non trovano quiete, il primo, per nascondere e porre sotto chiave le proprie fortune, l’altro per incrementarle, arraffandole anche con notevoli sforzi di fantasia.
V- Luminosi esempi d’Avidità costellano le storie degli imperatori romani, tanto d’Occidente, quanto d’Oriente.
Un cavaliere romano, mentre lo portavano al patibolo al cospetto di Vitellio, pensò astutamente di ingraziarsi quell’imperatore, gridandogli: “Ti ho nominato mio erede!”.
Come poté credere che questa dimostrazione di generosità avrebbe addolcito il tiranno? Non capiva che invece l’autorizzava a riscuotere subito quello che gli spettava? Infatti, dice Svetonio, che Vitellio “lo costrinse ad aprire il testamento e, avendo letto che era stato nominato erede assieme a un liberto, ordinò di scannarlo assieme a quel liberto”.
Giustiniano, da arte sua, era un genio nel trovare fonti illecite e fantasiose di guadagno; per esempio “ si autonominava successore dei morti e, perché no?, dei vivi, presentandosi come loro figlio adottivo”.
VI- Dionisio tiranno, primo fra tutti i furfanti sacrileghi, spogliava personalmente i templi degli oggetti più preziosi, trovando pel gesto giustificazioni che suonavano come sberleffi.
Rapinò il tempio di Giove Olimpio, nel Peloponneso, sottraendo il rivestimento d’oro che adornava la statua del Padre degli Immortali. Con la scusa che “un mantello d’oro è fastidioso d’estate e freddo d’inverno”, sostituì quel sacro paramento con un abituccio di lana, che a suo dire avrebbe protetto meglio il Dio dai rigori di stagione. “Analogamente ad Epidauro ordinò che si asportasse la barba d’oro di Esculapio col pretesto che non era bello che il figlio avesse la barba quando in tutti i templi il padre era raffigurato senza barba”.
Il suo, profanatore, istinto di rapina non si fermava di fronte agli scudi, ai vassoi dedicati come ex-voto, alle tazze, alle corone, e anche alle più piccole cose preziose, che i devoti offrivano agli Dèi.
Dionisio diceva agli amici che non sottraeva nulla che, in realtà, non fossero stati gli Dèi stessi a donargli; l’irrisoria facilità con cui si impadroniva dei loro beni preziosi, dimostrava, a suo dire, la complicità e il compiacimento dell’Olimpo.
Se il tiranno fosse stato solo un grande bestemmiatore, avrebbe persino meritato qualche simpatia tra i suoi posteri in odore d’ateismo. Invece da vero furfante e da ipocrita, non si limitava a irridere gli Dèi, ma pubblicamente fingeva pure ch’era giusto restituir loro il maltolto. Egli stesso si recava col bottino sacrilego al mercato, e lo metteva all’asta, pezzo per pezzo. Ma subito dopo aver riscosso il denaro, diramava un editto, accusando i compratori di ricettazione, additandoli al disprezzo degli spiriti religiosi, e imponendo loro di restituire quello che lui stesso aveva rubato ai templi di provenienza.
Nel dialogo Sulla Natura degli Dèi, opera di Cicerone, Cotta si scandalizza che gli Immortali, offesi da un simile coboldo, l’abbiano poi lasciato morire felice e tranquillo nel suo letto, mentre esercitava appieno i suoi poteri e la sua tirannica Avidità.
[in copertina: Allegoria dell’Avidità, di Johann Ulrich Mayr]