I- Chang e Eng Bunker, i due gemelli davvero siamesi che eternamente legarono i loro nomi a questa malformazione congenita, naturalmente, non si amavano. Erano saldamente ancorati l’uno all’altro attraverso un osso spesso e elastico che spuntava dai loro petti, ma finirono per detestarsi, nonostante l’ovvio obbligo a convivere. Come una coppia infelice, cercarono dovunque chi li potesse separare. Il loro salvatore – un chirurgo, che doveva sostituire il giudice o il matrimonialista – non si trovò mai. Avevano il fegato in comune, e, all’epoca, qualsiasi operazione tesa a segarli li avrebbe uccisi.
I gemelli sposarono due sorelle ed ebbero, complessivamente, ventidue figli. Figli che si concepivano, all’epoca, al buio. Per regolarizzare il loro ménage anche agli occhi del mondo, i “siamesi” interruppero presto la loro coabitazione. Vivevano, ci ragguaglia Leslie Fiedler, tre giorni a casa dell’uno e poi tre giorni a casa dell’altro. È inutile chiedersi cosa facessero il settimo giorno della settimana: ricominciava, semplicemente, l’alternanza.
Chang era un donnaiolo. Eng il contrario. Chang amava cibi piccanti ed era carnivoro. Eng vegetariano. Chang raccontava barzellette sporche. Eng era un fine intellettuale elitario. Secondo Edward Malone i due gemelli siamesi “litigarono sia in pubblico che in privato, da quando impararono a camminare sino al giorno in cui morirono”. È probabile anche che si picchiassero, non in pubblico, ma appena le circostanze glielo permettevano. Eppure condivisero un’intimità impossibile a qualsiasi uomo e donna, e persino a una coppia omosessuale – (non si dà il caso, infatti, di fratelli “siamesi” di sesso diverso).
La rivalità tra i due gemelli divenne leggendaria. Mark Twain scrisse che i “siamesi”, durante la Guerra di Secessione, “avevano combattuto entrambi valorosamente, Eng per l’Unione e Chang per la Confederazione. E si erano presi reciprocamente prigionieri a Seven Oaks”. Famosa è anche la sua descrizione di una rissa tra i due fratelli: “intervennero gli spettatori, che cercarono di separarli, ma non ci riuscirono e gli permisero quindi di battersi fino alla fine”.
Alla fine dell’Ottocento, al grande umorista Twain era ancora concesso esercitare le sue doti mirabili su personaggi come questi. Oggi, negli Stati Uniti come altrove, non si potrebbe neanche scrivere su di loro qualcosa di diverso da un trattato clinico. Neppure si può raccontare la loro storia in un film, facendo impersonare Chang e Eng da grandi attori, premi Oscar, per esempio. No: bisognerebbe ingaggiare due veri “gemelli”, davvero uniti da madrenatura all’altezza dello sterno, e comunque reclutarli tra i “siamesi”, o al massimo tra gli orientali; altrimenti si urterebbe la comune sensibilità o, meglio detto, la comune ipocrisia. Ci sono forme di rispetto preferite ad altre solo perché non costano niente, e che sostituiscono prove ben più dispendiose, e tangibili, di solidarietà.
In ogni caso, non vogliamo scrivere qui la loro biografia. Ci interessano le circostanze della morte dei due fratelli e fino a che punto, per spiegarle, dobbiamo far ricorso a questa grande Entità sterminatrice: la Paura.
Bisticciarono persino il giorno in cui uno di loro morì.
Negli ultimi tempi, Chang si era messo a bere: è probabile che a quel punto Eng – sobrio, astemio, bacchettone –, non ne tollerasse neppure il fiato.
In più Chang era rimasto, anche da vecchio, un gaudente: voleva tirar tardi. Eng, spartano, voleva coricarsi sempre due, tre, quattro ore prima.
Dopo un violento litigio notturno, il 7 gennaio 1874, nelle prime ore del mattino, Chang chiuse gli occhi per sempre.
“Eng si svegliò ignorando che il fratello era morto, o forse più semplicemente non voleva ammetterlo”, racconta ancora Fiedler, nel suo magistrale ritratto dei “siamesi” in Freaks. Non rivolse neppure la parola al gemello che gli pendeva davanti, quasi frontalmente, come un enorme e floscio fantoccio. «Chiese invece al figlio: “Come sta tuo zio Chang?” E il ragazzo disse: “Lo zio Chang è freddo… Lo zio Chang è morto”». Eng ghiacciò anche lui, i radi capelli si drizzarono sulla fronte imperlata di sudore: l’annuncio suonava la sua ultima ora.
Andò in bagno, accompagnato dal cadavere, e fece i suoi bisogni, trattenendosi un tempo interminabile. Quindi si stese sul letto, vicino – come sempre – al fratello, e raccomandò l’anima – immagino, solo la propria – alla Divinità. Poi, ignoro dopo quante ore, morì. Di cosa, esattamente? Quale organo aveva ceduto, quale morbo gli era stato fatale?
Si può ipotizzare che Eng si sentisse comunque condannato, tanto era convinto che non avrebbe mai potuto sopravvivere alla morte di una parte – una metà – del suo corpo. Sembra che gli stravizi del gemello gli fossero particolarmente odiosi perché presagiva che prima o poi quel crapulone avrebbe ucciso se stesso e accelerato la fine dell’innocente con cui conviveva: lui. Chang aveva già avuto, in precedenza, un colpo apoplettico. Si può immaginare lo stato ansioso di Eng, che era sano come un pesce.
La verità venne alla luce durante l’autopsia. Il dottor Allen affermò in seguito: “Eng è probabilmente morto di paura, poiché la dilatazione della vescica sembrava indicare un profondo turbamento emotivo del sistema nervoso, con il cervello rimasto lucido finché non è sopravvenuto lo stupore”.
Eng morì per la paura di morire.
II- Il padre della famosa Diana di Poitiers, Jean de Poitiers, era stato condannato a morte e nell’attesa tremebonda della propria esecuzione, incanutì in una sola notte, e tanto mutò nell’aspetto esteriore, che i carcerieri, al mattino, a malapena lo riconobbero, e pensavano fosse un altro, che l’aveva sostituito, mentre lui era evaso approfittando dell’oscurità.
L’uomo era colpevole, ma ignorava che sua figlia, la casta Diana, nelle stesse ore aveva concesso con disgusto i suoi favori al re Francesco I, pur di ottenere per lui la grazia e la libertà.
Al contrario di quel che capitò alla cantante Tosca di Sardou e Puccini (personaggio, come si scoprì, nient’affatto immaginario), il sovrano fu di parola: ma, inutilmente.
Superata con estrema sofferenza quella notte spasmodica, Jean morì poche ore dopo di crepacuore, giusto un momento prima che il decreto reale gli spalancasse le porte della prigione.
Mouchet, nel riferire questa storia, lascia pochi dubbi: fu fatale al padre di Diana de Poitiers la paura di morire.
III- Trovare uomini o donne che si danno la morte per contrastare la paura della morte che li assilla, non è poi così raro. Detto con le auree parole di Lucrezio: il terrore della morte (mortis formidine) arriva a ispirare negli uomini un tal disgusto della vita e della luce (humanos odium lucisque vicendæ), al punto “che troncano, con la tristezza nel cuore, i propri giorni”, senza riflettere sul fatto che sfuggono con la morte al timore di morire, sorgente di tutte le loro pene.
Certamente rientrano nella categoria di cui parliamo anche quelli che si gettano da piani altissimi per sottrarsi alle fiamme divampate nel loro palazzo, o grattacielo. Ma non mancano casi più sottili e metafisici.
C’è una cosa, in particolare, che il condannato a morte (e tutti lo siamo), non tollera: è l’attesa. Aspettare, macerandosi, il verdetto finale, la data ultima, il tuo numero che esce, il tuo plotone d’esecuzione comandato dal destino cieco.
Scrive Kafka: “il suicida è un carcerato che, nel cortile della prigione, vede una forca, crede erroneamente che sia destinata a lui, evade di nottetempo dalla sua cella, scende giù e si impicca da sé”.
Quel che ha tutto l’aspetto di una parabola kafkiana, è, invece, un fatto vero. Lo narra Montaigne (in termini appena differenti, ma solo nell’epilogo):
“Nei giorni scorsi un soldato prigioniero, avendo scorto da una torre nella quale era che, nella piazza, alcuni carpentieri cominciavano a montare le loro impalcature, e il popolo a radunarsi, pensò che lo si facesse per lui e, preso dalla disperazione, non avendo altro per uccidersi, afferrò un vecchio chiodo di carretta arrugginito che il caso gli mise davanti, e si diede due grandi colpi vicino alla gola; e vedendo che non aveva potuto così spezzare la propria vita, se ne dette un altro subito dopo nel ventre, per cui cadde svenuto. E in questo stato lo trovò il primo dei carcerieri che entrò per vederlo. Lo fece rinvenire; e per utilizzare il tempo prima che egli venisse meno, si fece leggere sul momento la sua condanna, che era di aver la testa tagliata, per la quale egli si rallegrò infinitamente e accettò di prendere un po’ di vino che prima aveva rifiutato; e ringraziando i giudici della mitezza insperata della loro sentenza, disse che quella deliberazione di uccidersi era nata in lui per l’orrore di qualche supplizio più crudele, il timore del quale gli era aumentato a causa di quei preparativi”.
In genere, quando la Giustizia si accorge che un condannato a morte fa di tutto per togliersi la vita, lo isola, lo agguanta, lo perquisisce, lo seda, e lo tratta come un criminale ancor più pericoloso, come l’avesse sorpreso mentre è in procinto di evadere. Invece è sommamente ragionevole preferire una morte certa in tutti i dettagli e contorni – ossia: quella che ci si dà, da sé – a un trapasso incerto, gestito da estranei, circondato di misteriosa sofferenza. A riprova che il Suicidio dipende quasi sempre da una scelta razionale, e che la Logica che applica è elementare, alla portata dello stoico come del bifolco.
“Quando la Morte giunge ammantata di Mistero è veramente terribile”, ha scritto saggiamente Ambroce Bierce in uno dei suoi splendidi racconti, “Il mio assassinio preferito”. Perciò non è affatto ossimorico né paradossale che uomo o donna si suicidino, anche, per questo: per paura della morte.