Il vecchio signor Hawkins aveva l’abitudine di aspettare i ragazzi accanto alla staccionata e quando tornavano da scuola li chiamava a gran voce. “Ragazzo!”, diceva. “Vieni qui, ragazzo!”. Quando si avvicinavano cantava loro una strana filastrocca: “…Se un buco scaverai, una grossa sorpresa certo troverai…”.
Il sinistro vecchietto sembrava un po’ pazzo, ma innocuo, e nessuno gli aveva dato retta fino in fondo. Finché Hawkins non chiamò il piccolo Ernie, e gli diede istruzioni più precise: doveva andare in un certo campo, fare tanti passi a destra e poi a sinistra, quindi scavare una buca profonda tre metri e mezzo. E ripeté: “Se la scaverai, una grossa sorpresa troverai…”. Ernie era convinto che il vecchio avesse sepolto un tesoro laggiù, e un giorno si decise a scovarlo.
Andò nel campo con due amichetti. Scava, scava, si fece notte e venne buio. I due compagni ebbero paura e tornarono a casa. “Allora terrò tutto l’oro per me!” gli gridò dietro Ernie.
Quando la buca fu profonda giusto tre metri e mezzo, il ragazzetto liberò dalla polvere una lunga cassa di legno. Che cominciò ad aprirsi da sola…
«Ernie cacciò un urlo. Si appiattì contro la parete di terra e contemplò, inorridito, l’uomo che spuntava dalla cassa. “Sorpresa!”, disse il signor Hawkins».
Là dentro – vivo, ma sepolto dentro una cassa da morto a tre metri e mezzo dalla superficie –, c’era il vecchio. Lo stesso che aveva invitato il ragazzino a scavare per trovare una “Grossa Sorpresa”. Il racconto termina qui, l’Autore non ci dice nulla di più. Ci lascia immaginare.
L’Autore di questa favola-horror si chiama Richard Matheson (1926-2013), statunitense di Allendale, un gigante della Letteratura che ha contrassegnato con le sue invenzioni narrative (e anche televisive e cinematografiche), almeno mezzo secolo di Storia del Fantastico. Il “Big Surprise” che abbiamo appena riassunto, si colloca tra i suoi testi più programmatici e “a tesi”. Matheson gioca con le aspettative del lettore (che filtra questa trama sulla base delle sue esperienze precedenti nel campo del Fantastico), e lo sfida a “dedurre”, o meglio a “ipotizzare”– cioè, a “abdurre” –, quale possa essere la “Grossa Sorpresa” promessa già dal titolo del racconto. E, padrone del genere, sa che invece fulminerà chi lo legge con un finale ugualmente Inatteso.
Alcune caratteristiche fondanti del Fantastico sono qui “esposte” con tale evidenza da sostituirsi a qualsiasi indagine critica. Innanzitutto: la ricerca della Sorpresa, il desiderio di stupire il lettore con un thrill, un brivido associato alla Paura. Poi l’Economia degli ingredienti, che garantisce la precisione dell’Effetto Fantastico: sostanzialmente, i protagonisti della vicenda sono solo due, e l’azione intorno a cui ruota la brevissima trama si limita al gesto di “scavare”. Così che si può dire che chi scava dentro “Big Surpise” trova davvero un tesoro: i segreti della Letteratura Fantastica.
Intorno a ingredienti come questi, esigui ma saldamente dominati, Richard Matheson ha costruito un’Estetica dello Shock, perseguita con tutti i mezzi dello scrivere, leali e sleali.
Nei suoi romanzi e racconti compaiono: professori di sociologia che si risvegliano dalla morte trasformati in robot; ragazze single inseguite nei loro appartamenti da feticci fallici e dentuti; autobus rigurgitanti di cospiratori che attentano all’uomo della strada; bambini che le madri, con esperimenti successivi, trasformano in topi; fantasmi che annunciano il loro assalto per telefono, approfittando delle linee che passano per il cimitero; e cento altri eroi striscianti nel buio o flagranti che impongono la loro legge eversiva al nostro immaginario, istupidito, infiacchito, immatricolato e prono alla routine della “modernità”.
L’idea di partenza, ripetuta, e esperita in mille variazioni è spesso quella d’un rovesciamento di prospettiva. La “normalità” esibita, reclamata o calpestata dei protagonisti, cela invece la loro mostruosità (è il caso di Nato d’Uomo e di Donna, o Io sono Helen Driscoll). Oppure, viceversa, chi è “normale” è un unicum in un distretto o pianeta (che può essere il nostro), popolato di mostri – come i vampiri di I am Legend, o come il gatto domestico, o il ragno, di Tre millimetri al giorno. L’Io o l’Egli dei racconti di Richard viene reso fin dal principio un “centro di mondo”. L’evento più importante della Terra sta accadendo, proprio in quel momento, a lui/lei. Ed è orribile.
Sono testi, quelli di Matheson, nei quali si rintraccia la radice del nostro stato odierno: il Post-umano, l’Uomo haunt-ologicamente posseduto da Spettri che appartengono non solo all’inconscio profondo: ma proprio alla Storia.
Alla fine, scopri che il fantasma raccapricciante del quale ti narrano, sei proprio Tu, sei Te stesso, e allora il terrore ci penetra con un rumore di trapano, molto peggio che un jamesiano Giro di vite.
Anche chi, oggi, pensa di non conoscere Richard Matheson, in verità lo conosce. Il suo stile, il suo modo di affrontare la materia e i nodi del Fantastico, sono transitati e hanno invaso tutto il genere, da Stephen King fino alle serie horror più attuali e più popolari.
Con “Ai confini della Realtà” (The Twilight Zone) nel 1959 Richard ha fondato il modello del racconto Fanta-Horror televisivo, assieme a Rod Serling, a Charles Beaumont, a Ray Bradbury. Dopo Jack Arnold (Radiazioni BX, distruzione Uomo), anche Roger Corman si accorse del suo immenso talento e lo invitò a creare e a sceneggiare un ciclo di film gotici tratto – con molta fantasia e ironia – dalle opere di Edgar Allan Poe: I vivi e i morti, Il pozzo e il pendolo (in 3-D), I racconti del Terrore, e il godibilissimo I maghi del terrore (tutti interpretati da Vincent Price e realizzati tra il 1960 e il 1963). Il contatto con il linguaggio cinematografico rese la sua scrittura ancor più affilata e precisa, come il taglio del montaggio.
Matheson ha promosso la fama dell’esordiente Steven Spielberg lanciandolo con Duel (1971), divenuto poi un classico. Ha sceneggiato il terrificante Trilogy of Terror di Dan Curtis (1975), davvero uno dei film più spaventosi della storia del cinema; ha reinventato il marchese De Sade (per Corman e Cy Enfield, nel ’69); ci ha precipitato, con Dopo la vita (di John Hough, 1973) nei segreti della “Casa Inferno”, dimora impestata da un Fantasma alle prese con smisurati complessi. Per Ovunque nel tempo (Somewhere in Time, di Jeannot Szwarc, 1980) ha escogitato il sistema più semplice per viaggiare nel Tempo, senza bisogno di macchine o droghe. E non sarebbe giusto neppure, in questa panoramica parziale, sottovalutare Lo Squalo-3 D, di Joe-Alves (1983).
Spielberg, Joe Dante e George Miller hanno tributato un doveroso omaggio al genio di Matheson chiamandolo a scrivere per loro il film a episodi Ai confini della realtà (Twilight Zone: The Movie, 1983), nel quale si trova, come gemma finale, la riproposta di uno dei suoi più inquietanti racconti: “Terrore ad alta quota” (“Nightmare at 20,000 Feet”).
Matheson è stato assoluto Maestro del racconto “a effetto”. Le sue narrazioni si dipanano da un iniziale assunto fantastico in modo lineare, quasi geometrico. Spesso, anche i testi più felici e riusciti sembrano “teoremi da dimostrare”. Perciò non dovrebbe suscitar scandalo indicarlo come uno dei migliori e più significativi scrittori della sua generazione. Intendendo: di tutta la Letteratura, non solo di quella fantascientifica o horror. Certe sue brevi immaginazioni hanno il nitore e la simmetria dei racconti di Borges e di Bioy, l’esattezza delle parabole di Papini, l’angoscia distillata di Kafka. Tutti elementi ai quali Matheson non esita a aggiungere l’Orrore azzannante di Bierce, Machen e Montague James.
Ciò che rende ancora più interessante Matheson non è solo la maestria con la quale combina (parola-chiave del Fantastico) gli ingredienti tradizionali del Fantastico, bensì la sua qualità di impenitente sperimentatore, di pioniere del genere. La sua è vera letteratura di ricerca, preferibile (e niente affatto” minore”) a quella di tanti scrittori impegnati o “letterari ingaggiati” che, come diceva Gadda, “dopo anni zinque si disingaggiano”. Nei suoi racconti, raccolti col titolo Shock, i testi classici, i temi classici o, all’apparenza, risaputi, sono oggetto di variazioni che spostano ogni precedente confine dell’Immaginazione. Risalta la sua costante ricerca di nuove dimensioni e combinazioni narrative per nulla “metafisiche”, ma tutte sul piano della scrittura e quindi, felicemente laiche. Di qui anche il gioco con la Parodia, che solo in apparenza può essere scambiata come una volgarizzazione del Mondo, quando invece è una evidente sua de-sacralizzazione. Perché quella di Matheson fin dagli anni 50 del secolo scorso è già scrittura dell’avvenire, e la sentiamo quindi nostra contemporanea nel nuovo millennio. È Scrittura-Cinema. Dove – con la forza della tradizione di Hoffman e Poe alle spalle – , alla bidimensionalità dello schermo o a quella della pagina bianca istoriata dal tipografo, si aggiungono prima una terza, poi una quarta dimensione: i nuovi assi cartesiani del Fantastico Puro.
[in copertina: Io sono Helen Driscoll (A Stir of Echoes) di Karel Thole]