La storia di Simeone Stilìta, il Santo Anacoreta che invece di tumularsi in una cella si mise in bella mostra su una colonna, è singolare.
Simeone era siro, era pastore, sentì implacabile la vocazione a farsi monaco e a ritirarsi in luogo appartato e deserto. Giunto in una zona montagnosa a oriente di Antiochia ebbe una folgorazione. Non una visione mistica, direi: anzi, reale, normale, di quelle che lasciano i viandanti indifferenti. Vide una colonna alta nove piedi.
Attaccò una catena alla sua base, ne fissò l’altra estremità al piede e ci salì. Restò per così dire, là, inchiodato, e cominciò un gramo romitaggio diverso da quello di tutti i suoi confratelli.
Contrariamente agli altri monaci, Simeone era sempre visibile, era perennemente esposto alla curiosità, al ludibrio, all’ammirazione delle genti. Secondo il teologo Hans Kung (rimando al Cristianesimo), le immagini sacre dei Santi non esistevano prima di lui: furono inaugurate con i pellegrinaggi alla sua colonna. In certo senso, dunque, lo stilita fondò anche il “Reality”, osceno termine che contrassegnò l’involuzione dei programmi televisivi dei nostri tempi.
La sua Visibilità assoluta, e la partecipazione corale alle sue coatte e limitate esibizioni, ricordano, purtroppo, il “Grande Fratello”.
Simeone riscosse un enorme successo: testimonianza ne fu che la colonna, col suo consenso, fu innalzata fino a sessanta piedi. Appollaiato su questa cuspide più imponente il santo trascorse trenta estati e altrettanti inverni.
Simeone era un Atleta, un Ginnasta della Penitenza Aerea. Non si annoiava mai, era sempre in esercizio. Spesso compiva le sue devozioni in piedi con le braccia distese a croce, come un uccello magro spalanca le ali sulla sommità di un obelisco.
Incurante e forse, ignaro, delle vertigini, lo stilita riformò l’arte della genuflessione raggiungendo in questo campo vette inimmaginabili. La sua specialità erano le “flessioni” durante la preghiera: piegava lo scheletro finché la fronte non gli batteva sugli alluci, avanti e indietro, senza sosta, come una marionetta contorsionista. Un curioso o cronista sportivo ante litteram, si prese la briga di contare quante volte Simeone, prima di interromper gli esercizi, era in grado di flettersi. Arrivato al numero di 1244, desisté lui, molto prima che il santo piegandosi a metà mostrasse segni di fatica.
Al termine di una vita così sana, ancorché limitata su una piattaforma di pochi centimetri quadrati, l’Anacoreta contrasse un’ustione o ferita misteriosa, che lo infastidì alquanto nelle sue estreme, acclamate prestazioni. Conclude Gibbon – da cui ho estratto molte di queste notizie –: “una piaga nella coscia poté abbreviare, ma non interrompere questa vita celestiale; e il paziente eremita morì senza scendere dalla sua colonna”.
Per oscurarne la memoria, fu detto, che la bruciatura di Simeone aveva origine diabolica; che il santo persino in quella scomoda e ridotta posizione si era lasciato tentare dal demonio e che salì su un falso carro di fuoco, pretesa proprietà di Elia. Non trovò il Profeta, ma assaggiò Satana e le faville dell’Inferno.
Luis Buñuel, genio inimitabile dell’arte del secolo XX, dedicando allo stilita un film, Simeon del Deserto, interpretò in questo modo la sua ultima avventura: che il Santo era stato tentato con le delizie del Futuro. Il veicolo celeste su cui balzò, altro non era che un aereo a reazione del secolo ventesimo. Con questo sostituto più dinamico del Carro d’Elia, Simeone raggiunse la Parigi degli anni ‘60, dove, sigaretta tra le labbra e maglione dolce-vita a giro collo, vanitosamente si abbrutì in compagnia di un diavolo femmina nelle cantine esistenzialiste più alla moda.
Buñuel fu attratto da questo personaggio grazie a Garcia Lorca, che gli aveva prestato la Legenda aurea di Jacopo da Varazze. Il poeta Lorca “rideva di cuore leggendo che le defecazioni dell’eremita, lungo la colonna, sembravano colate di cera su una candela”.