Secondo il professor Oliver Sacks, un neurologo cinese, “il dottor Dajue Wang”, avrebbe scoperto che i grandi compositori, prima di mettersi all’Opera davanti a una partitura vuota, stimolano certe zone del cervello che possiamo chiamare “plaghe musicali”. Pare che Šostakóvič fosse molto affezionato a una scheggia di granata che gli era penetrata nel cranio, e che non stava ferma ma andava avanti e indietro nei suoi lobi temporali. Non volle mai farsi operare, per rimuoverla. “Da quando c’era quel frammento, disse, ogni volta che piegava la testa da un lato sentiva della musica. Aveva la testa piena di melodie, sempre diverse, cui egli attingeva poi nel comporre”.
Era, per così dire, un “epilettico musicale” volontario.
Dmítrij Šostakóvič fu estremamente prolifico: è uno dei pochi grandi compositori che sia riuscito a superare, da vivente, lo scoglio fatidico di una “decima Sinfonia”. Era il simbolo della musica sovietica, nonostante fosse alieno ai principi zdanoviani del “realismo socialista”. Però Zdanov, e forse anche un redivivo Marx, sarebbero stati felici di apprendere da lui fino a che punto l’Ispirazione Artistica potesse dipendere da dati e fatti materiali e fosse, nel suo caso, una “sovrastruttura” del lavoro concreto di una scheggia di metallo annidata nel cervello.
Naturalmente, per l’idealista, per il crociano, per il romantico, per l’uomo della strada, supporre questa dipendenza delle vette più alte dello Spirito da una materialità anatomica, è puro abominio.
É norma dell’estetica moderna che l’arte debba essere autonoma. Non solo l’artista non deve sottomettersi a fini (etici e politici) estranei alla sua genuina Ispirazione, ma – é sancito – quando comincia a “creare” non deve neppure sapere dove vada a parare, e cosa intende dimostrare, e se, alcunché.
Questa forma d’elevata autonomia, l’Arte la persegue da millenni, destando ovvi sospetti, ovvie censure. Se non è al servizio di nulla, serve a nulla, s’opinò. Non è così scontato: Omero non schierò apertamente l’Odissea dalla parte dei Feaci; tuttavia, evidente è il proposito del suo poema, monumento della perenne voglia di “Narrarsi” che ha il genere umano.
Un radicato retaggio romantico e idealistico – che oramai accomuna tanto l’artista quanto il suo eletto “critico” – ha stabilito che l’Opera d’Arte deve nascere e crescere in un incerto e parossistico stato di “trance” indefettibile: un vero e proprio “invasamento”.
La questione centrale (che neppure Kant seppe risolvere) resta: cosa sia quel particolare “invasamento” che gli antichi chiamarono Musa, e che per noi moderni risponde al nome di “Ispirazione”-
Dall’Ottocento in poi l’Ispirazione è divenuta un feticcio cui si sacrifica volentieri ogni barlume di Ragione.
Al culmine di questa esaltazione, l’Autonomia dell’Arte divenne, inevitabilmente, Automatismo; i surrealisti giunsero a teorizzare la scrittura automatica in letteratura, e, in campo figurativo, la replica automatica delle immagini anarchiche dei Sogni.
Vero trauma però resta, anche per il surrealista, la scoperta che: l’Ispirazione non è automatica. Va e viene. Oppure va, e non torna mai. Oppure, peggio, si dà il caso (e questo vale anche per personaggi ora acclamati) che non ci sia mai stata.
Per questo in ogni tempo gli Artisti si sono premuniti di risvegliare e scuotere la propria Musa ricorrendo agli stimolanti più vari.
Droghe, per esempio: l’oppio per il letterato De Quincey, l’haschish per altri, la cocaina del XX secolo, o l’ alcool (per Poe, o Baudelaire). Eschilo, si disse, componeva volontariamente ebbro.
Dove gli additivi non sono sufficienti, o addirittura, risultano nocivi, si riscoprono i calmanti, i tranquillanti. Ci furono libri e testi nati da purghe generose, da salassi e forse, da clisteri. Aulo Gellio riporta che Carneade, “dovendo scrivere contro i libri dello stoico Zenone, purgò la parte superiore del proprio corpo con dell’elleboro bianco, per evitare che umori corrotti del proprio stomaco si elevassero fino alla sede dell’anima”.
Altre volte l’artista si premunisce con pratiche al limite del superstizioso; alcuni esigono, prima d’azzuffarsi con la loro “creazione”, un adeguato “camuffamento”. Per esempio, ci informa Marthe Robert. c’è chi non “riesce a sedersi alla scrivania se non in un certo abito, una tonaca, come Balzac”. E Waree ricorda che “Cujas e Pothier composero i loro libri più importanti stesi su un tappeto; Descartes le sue opere sublimi coricato sulla schiena; Mézeray aveva l’abitudine di scrivere a lume di candela anche in pieno giorno; il poeta Cimarosa non ritrovava la sua ispirazione altro che in mezzo alla folla e ai suoi trambusti; Henri Estienne compose la sua Apologia d’Erodoto mentre cavalcava”. Paisiello non poteva lavorare alla sua musica altrove che a letto; e anche per Marcel Proust, quello era il suo “studio”.
In termini di “invasamento”, non si può neppure trascurare il contributo fantastico arrecato dai Sogni alla grande Arte, alla grande Letteratura.
Il repertorio delle Ispirazioni Oniriche, è vastissimo. In uno dei saggi straordinari che compaiono in Altre Inquisizioni, Jorge Luis Borges enumera, tra le opere d’arte scaturite da un Sogno: le ballate medievali del pastore Caedmon, la sonata Il trillo del Diavolo di Tartini (eseguita dal diavolo in persona); il poemetto incompiuto Kubla Khan di S.T. Coleridge; il racconto Olalla, e il romanzo breve Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde, entrambi di Stevenson.
Al mattino, quando si coricava per dormire, il poeta Saint Pol-Roux affiggeva sulla sua porta un biglietto autografo: “Il poeta lavora”.
Il Sonno s’addice all’Arte, ma in certi casi è cattivo consigliere. Stimolando, forse, gli stessi gruppi di neuroni sui quali si accaniva la scheggia di granata di Dmítrij Šostakóvič, Charlie Chaplin “componeva la musica dei suoi film mentre dormiva”. Per questo, lo ricorda Buñuel, “si fece installare accanto al letto un registratore alquanto complicato. Si svegliava a mezzo e fischiettava qualche nota prima di riaddormentarsi”.
Chaplin compose, da sonnambulo, la Violetera. Il motivo però non era suo, non era originale. Fu accusato immediatamente di plagio.
[in copertina: Esiodo e la Musa, di Eugène Delacroix]