Il nostro cervello ricorda, in parte, una tastiera di strumento musicale, e, ancora in parte, un fantasmatico juke-box. Oliver Sacks ce lo rivela in un capitolo de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, dedicato a alcuni casi di “epilessia musicale”.
Certe sue pazienti, anziane, erano perseguitate da fantasmi uditivi: ascoltavano – solo loro – una musica incessante, che nulla riusciva a mitigare o faceva tacere. Vecchie ballate o nenie, per esempio. Uno studioso di queste singolari manifestazioni epilettiche, Wilder Penfield, fece una scoperta fondamentale. Operando – mi si passi il termine – a “cervello aperto” i suoi pazienti, completamente coscienti, aveva stimolato le aree specifiche, “musicali” dei loro lobi temporali. “Queste stimolazioni evocavano all’istante allucinazioni vivissime di melodie, persone e scene, che venivano esperite, vissute, come irresistibilmente reali, nonostante la prosaica atmosfera della sala operatoria”.
Un “punto” preciso del cervello corrispondeva a una particolare “scena musicale”: toccando quello immancabilmente si producevano nella coscienza del paziente, sempre e solo le stesse melodie. Tutto è così vivido, in questi esperimenti, che possiamo definirli l’evocazione chirurgica di fantasmi sonori.
Ovviamente, nei lobi temporali venivano feriti con un ferro i nostri centri più nevralgici della memoria. Quando vogliamo “ricordarci” un particolare “motivo”, è lì che andiamo a pescare, in questa zona del cervello, in un modo per ora in parte misterioso – e che a me ricorda molto il sistema di puntamento del mouse.
Ma la musica è meno “ideale”, e assoluta, di quanto pensavano Borges e Schopenhauer. È concreta, non è astratta. Pare infatti che difficilmente riusciamo a isolare motivi e melodie dalla “circostanza” in cui l’abbiamo uditi. Di un’esperienza musicale particolare, la nostra memoria riporta in vita tutto: in quel momento, però, noi stessi impediamo che la nostra coscienza sia sovraccaricata di particolari inutili. Rendiamo astratto e pentagrammatico, confinandolo nel puro udito, quello che per la nostra coscienza più profonda è invece sangue, carne, relazioni e vita.
Dopo aver sollevato la loro scatola cranica, Penfield, stimolando un punto preciso del cervello, sempre lo stesso, ottenne dai suoi pazienti questi risultati: uno di loro udì distintamente White Christmas, cantato da un coro; un’altra, ascoltò Rolling Along Togheter, ma non identificò il motivo: lo canticchiò, e fu un’infermiera a riconoscerlo. Una delle sue cavie col cranio spalancato, riascoltò Bulli e Pupe, un’altra, Hush-a-Bye Baby, un altro ancora fu inondato dalle note festose di Oi Marì, oi Marì!.
Si potrebbe pensare che noi stipiamo in quel punto del cervello un bel po’ di musica a casaccio. Non è così. Quasi nella totalità dei casi osservati, fu accertato che quei motivi erano sigle di programmi radiofonici. Abbiamo una zona “radiofonica” nei nostri lobi temporali.
Ma allora, è lecito chiedersi: visto che la radio è un’invenzione recente, cosa c’era nella stessa area cerebrale prima di Marconi? Cabaret, Opera, Operetta, motivi popolari da organetto? E prima ancora, cosa immagazzinavano lì i nostri antenati? Ai tempi di Eschilo e di Sofocle, per esempio, c’era il colpo di cembali della tragedia greca? Un redivivo Nietzsche, dopo scoperte come queste, sarebbe costretto a riscrivere da capo La Nascita della tragedia dallo spirito della Musica.
Altra conseguenza da non sottovalutare: se i tarli musicali (motivetti che non riusciamo a scacciare dalla mente, musiche “senza fine” che si ripetono contro la nostra volontà) sono nati “prima” dell’epoca del fonografo, ciò significa che la Riproducibilità è innata in noi e non riguarda solo il dominio della Tecnica, ma la Fisiologia Umana. Walter Benjamin avrebbe dovuto tenerne conto, quando scrisse L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Al di là del campo artistico, gli sviluppi di queste scoperte sono notevoli, e anche parecchio perturbanti. Penfield partì da queste rievocazioni “sonore” automatiche, e dal loro contorno di figure vive, per “ipotizzare che il cervello contenesse la registrazione quasi perfetta di tutte le esperienze della vita, che l’intero flusso di coscienza fosse conservato nel cervello e – conclude Sacks “potesse pertanto essere sempre evocato, suscitato”.
Veramente noi non scordiamo nulla. Noi siamo come lo sfortunato e memorioso “Funes” di cui parla Jorge Luis Borges in Finzioni.
Da qualche parte nel cervello, ci sono, non c’è da dubitarne, tutti i nostri Sogni. Tutte le nostre Fantasie.