Ora che Severino “in senso stretto”, strettissimo, non c’è più, ora che i Libri che più amava, “i suoi libri disposti su tre file”, continuano a vegliarlo “come angeli dalle ali spiegate”, sembrando, per lui che non è più, “il simbolo della sua resurrezione” (Proust, La prigioniera), che altro si può dire, che non faccia torto alla sua Lezione?

Come gli antichi discepoli di Confucio, Severino aveva il dono di leggere i testi dei letterati, morti o viventi, come scoprendo “perle” nella loro bocca schiusa a parlarci. In uno scintillio di madreperla, le pagine dei Libri – mai mute – conversano con noi. La lettura è un atto incomprensibile, fuori di questo Dialogo soffuso di splendore luminoso.
In una pagina che solo a noi piace citare, Walter Benjamin paragonò i Libri alle sgualdrine. Probabilmente – fatto raro, in lui – aveva torto. Ma: come negare (non lo farà il bibliofilo, non lo farà il bibliomane) che ci sia qualcosa di eccessivamente “materiale” nel Libro inteso come “oggetto”? un che di “prosaico”, nel volume a stampa che, una volta pubblicato, approda sugli scaffali delle librerie o dei supermercati, irrompendo nel “mondo delle Merci”? Il Libro, anche il più sofferto dall’Autore, per eccesso heideggeriano di Presenza si presta allora, incautamente, ad essere adocchiato, maneggiato, palpeggiato da ogni possibile acquirente, o, peggio, dai semianalfabeti attratti solo dalla pubblicità televisiva.
I lettori, le lettrici, gli appassionati di Lettura preoccupati per questa deriva di “mercificazione”, potranno allora invidiare Severino: per lui i libri non erano, e non potevano mai essere, “oggetti”. Lui, i libri, li “profetizzava” – li vedeva “nascere”, li portava “alla luce”, ascoltava i loro gemiti e vagiti, e poi li “curava”, guarendo con tenacia e limpidezza le loro infantili malattie.

Ma adesso – poiché, come diceva Severino, “le cose succedono davvero solo a chi poi le sa raccontare” – qualcosa pure, qui, di lui, si dovrà raccontare. Il problema è il: come. Già sostenere: “Io mi ricordo di Severino, quando…”, è un bell’azzardo. C’è quel pronome iniziale, “Io”, che come uno specchio deformante, getta sul ricordo una luce opaca, e ne altera i contorni. Si afferma, ne La Cognizione del Dolore: tra tutti i pronomi personali, che come insetti affollano il discorso, il più squamoso, il più detestabile, è proprio quello, l’Io. Non è mai facile, non è affatto facile – l’ha denunciato Severino, in Con molta Cura – uscire per un breve momento dalla propria, per “affacciarsi su un’altra vita, che non è la tua, grazie alla scrittura”. Ed è così difficile, poi, “riconoscersi” nei ricordi altrui!
Si dovrebbe dunque ricordare un grande Spirito, qual era Severino, senza cadere nella tentazione di parlare di se stessi. In “terza persona” si dovrebbe parlare, non di lui, ma di chi lo racconta, mentre “si” racconta.
La formula è infelice, complicata se si vuole, ma serve a introdurre nel modo più appropriato un ricordo degli anni del suo lavoro al “manifesto”. Anni in cui il giornale era totalmente permeato e disciplinato dalla personalità straordinaria, esorbitante, dei Padri Nobili della testata: Rossanda, Pintor, Parlato. Severino andava fiero, a ragione, di quanto aveva fatto in quella redazione. Era del resto uno dei pochissimi, tra le eminenze del “manifesto”, che si comportava come se non gli importasse affatto di prendere il posto dei Fondatori. Pure, diventò Direttore di alcuni supplementi, e lì lasciò il segno, l’impronta del suo “tocco”. Con garbo, leggerezza, semplicità, ironia, persino – molto spesso – con timidezza. Con anacronistici, inattualissimi rossòri.

Fu proprio al “manifesto” che l’autore, prudentemente nascosto da pseudonimo, de Il Matrimonio del Mare e dell’Inferno (1980) e, poi, di Khalulabìd (1984) ebbe la fortuna d’essere sfiorato da quel “tocco” proverbiale. Il primo romanzo – genere horror –, chissà come, era uscito sulle colonne del giornale, a puntate, in piena estate: operazione mai tentata prima, sul “quotidiano comunista” (e sicuramente favorita dalle “ferie” allora in corso). Il secondo, un “giallo esotico” ancora più difficile e contorto del precedente, l’ebbe tra le mani Severino, capocultura, quando il libro era ancora “in fasce”: un dattiloscritto olivetti lettera 32, caratteri in rosso (il nastro blu era finito), con le pagine un po’ sgualcite e orlate di nero-carta carbone.
Lo scartafaccio fu consegnato in fretta e furia, alla vigilia d’un’altra, distratta e sonnolenta, estate di vacanze, perché l’autore doveva sottoporsi a un’operazione. Bene, Severino andò in clinica a trovarlo, lo scrittore. Manifestando, con la sua consueta finezza, le sue perplessità e le sue osservazioni su alcuni passaggi del romanzo. Era il 1984, si diceva, ma era già evidente che Severino come “curatore” possedeva un “tocco” magico: talmente concreto ed evidente, che quel tocco si materializzava in un puntino, inflitto a margine delle righe meno convincenti. Una punta di lapis “ben temperato”, poggiata con pudore e insieme con determinazione sul bianco della pagina, visibile e invisibile, al contempo.
Ha scritto Walter Benjamin, ribadendo in un appunto l’equazione espressa in precedenza: “Libri e prostitute: le note a piè di pagina sono per gli uni quel che sono per le altre i soldi nella calza”. Ma davvero le “note del curatore” equivalgono alle banconote, infilate nella giarrettiere, con cui si pagano certe prestazioni? Nel caso di Severino quella nota su Khalulabìd era invece, e appena, una “puntura” piena di rispetto: il segno, quasi, d’un’iniezione intramuscolare, come un inizio docile e indolore della “cura”. Oppure somigliava alla minuscola ferita o scalfittura che, poi, (come a chi vive dentro il suo guscio d’ostrica) spettava all’autore, così pungolato, trasformare in confuciana “perla”. Certo, quel puntino discreto e assai poco invadente, stava a significare che il curatore non si prendeva nessuna “libertà” col testo esaminato; né si sognava di rimarcare il suo ruolo “di potere” o di possesso, come editor. Tant’è che la vera “nota” veniva fatta e detta, poi, a voce, a commento, condiviso, di quel punto. Con l’autore, dolorante ma riconoscente, confinato nel letto d’ospedale. Severino impartiva la sua Lezione ai libri nascituri a Voce Alta. Una voce esile, gentile, premurosa, usciva dalla bocca, serrata quasi a bacio. A pensarci adesso, il segno nero impresso da quel minuto affondare del lapis nella pagina, ricordava il neo grazioso che aveva, Severino, sulle labbra.
Borges e Manguel scrivono che la Lettura divenne un fatto “mentale”, personale, quasi senza preavviso. Santo Ambrogio, pare, fu il primo che si mise a leggere i testi sacri a bocca chiusa, suscitando lo stupore degli altri, dei presenti – come sant’Agostino –, abituati a “sentire” i libri, e quindi a condividerli, con chi leggeva. Il “metodo” di Severino, non va forse inteso come un concreto tentativo di risanare questa frattura storica?

C’è un momento, bellissimo, in Con molta Cura, in cui lui racconta d’essere sceso fino al faro di Ventotene, portando con sé un libro che parlava di mare e di velieri, preso – dice – senza pensarci. Dei libri che non aveva “visto nascere”, lui conosceva bene questa qualità: sembra che li hai dimenticati, e invece certe volte sono loro che ti chiamano, “d’imperio”. Anche dopo venti o trent’anni di oblio negli scaffali. Esperienza condivisa, che tutti i veri lettori, le vere lettrici, fanno. I libri ti chiamano: è come l’appello sulla tolda di una nave. E allora, via, sulle scialuppe, a navigare le righe scritte come fossero onde da solcare…
Severino, dunque, è sul molo, avrebbe voglia di parlare con qualcuno, ma non può, è solo, e allora comincia a leggere il suo libro sul mare.
E, mentre legge, accade qualcosa: qualcosa di molto “reale” e di, altrettanto, “letterario”.
«Alzo gli occhi dalla pagina. La vedo lontanissima, come se il mio sguardo si fosse innalzato, è diventata molto piccola pur rimanendo nitida, i caratteri li distinguo bene, pur da quassù. La luce del giorno preme da sotto una nuvolaglia scura che si stende su tutto l’orizzonte. Le barche all’àncora dondolano appena […]. Chiudo il libro e le vedo distintamente. Macchie di ruggine cominciano a corrodere la copertina bianca, a partire dal bordo.
Non c’è nessuno, qui.
Nemmeno io».

L’essere solo, lo ha fatto, letteralmente, scomparire. Il libro stesso è tornato per un istante un “oggetto” tra le sue mani. Una povera creatura materiale, che il male (la ruggine) inizia a devastare. Anche la Lettura, ci ammonisce la parabola – dono pur così gradito –, non ci salva, se siamo e ci sentiamo soli. Testimonianza di Severino: solo la Condivisione, solo l’Amore– anche l’Amore per i Libri, certo, ma non solo –, ci può salvare. Perché: “Io, senza l’Amore, non sono niente; sono nessuno”. Parole che compaiono, nella traduzione più giusta, in San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi, 13.
[in copertina: Autoritratto a diciott’anni, di Antoine Wiertz (1824)]