I- Tristan Bernard (1866-1947) rispose a un questionario sulla Storia dell’Arte in modo molto pratico: « “Se un incendio scoppiasse al Museo del Louvre, e non poteste salvare che un solo quadro, quale scegliereste?” “Quello più vicino alla porta d’uscita…” – replicò.
Sagace arguzia, ma che non raggiunge le vette metafisiche attinte da un altro Maestro suo compatriota: «A chi gli diceva: “Se un incendio stesse distruggendo la tua casa, qual è la cosa che t’affretteresti a portare in salvo?”.
Jean Cocteau rispose: “Il fuoco”». Quel fuoco.
A mente fredda, se si può dir così, è strano che tra gli Occidentali il Fuoco sia considerato tutto indifferentemente uguale, che la fiamma che brucia il Louvre di Parigi o la mia casa dalle fondamenta sia concepita identica a quella che abbrustolisce la punta d’un qualsiasi, fiacco, fiammifero.
Perché non abbiamo distinto, come per gli Animali, il Fuoco secondo specie, genere, famiglia, giù giù fino all’individuo-fuoco?
Zoroastro negli Oracoli sentenzia:
“Ascolta la voce del Fuoco”.
Così come ogni voce è diversa per chi ascolta, così, forse, ogni fuoco manda un crèpito distinto o avvampa lasciando un’impronta sonora differente. Forse: è un lamento. Anche il Fuoco, infine, non vuole morire.
II- In uno dei racconti più straordinari di Julio Cortázar, Tutti i Fuochi il Fuoco, lo stesso Fuoco incendia una casa del secolo XX, e incenerisce un anfiteatro dell’epoca romana, dove due gladiatori hanno appena finito di trucidarsi a vicenda.
Il Fuoco potrebbe allora essere una soglia, un medium, che riesce a mettere in contatto Passato e Futuro. E proprio per questa sua valenza “profetica” è stato adorato e interrogato da intere civiltà. In Eschilo, Prometeo viene schiantato su una roccia da Zeus non solo per aver insegnato agli uomini come – banalmente – si fa sprigionare una scintilla sulla paglia, ma, colpa ben peggiore, per aver loro svelato il segreto del Fuoco: il suo linguaggio, le sue virtù di Preveggenza: “Resi chiari per loro” – si vanta il Titano incatenato – “i segnali delle fiamme, quando bruciano, che prima erano oscuri”.
III- C’è molto di fantastico, nel fuoco.
Sostiene Borges che ai tempi del Buddha si usava un’altra Fisica, e si riteneva quindi che nulla s’estinguesse, ma proseguisse la sua esistenza in un’altra dimensione: “Si pensava che una fiamma, quando si spegne, non sparisse. Si pensava che la fiamma continuasse a vivere, che continuava in un altro stato”.
Il Fuoco in realtà non si consuma mai; si può spegnere, ma non si consuma. È lui a consumare la materia che sfiora.
Il “primo fuoco” acceso dagli uomini, nella preistoria, può ardere ancora su qualche lampada moderna. Nulla lo impedisce, dal punto di vista “fisico”. Il fuoco transita, di lume in lume, senza mai arrestarsi. Bruciano miliardi di stoppini, milioni di ceri si liquefanno, ma il fuoco che li ha accesi potrebbe non estinguersi mai.
Penso a certe antichissime lucerne: ce ne saranno, nella grotta di Macpela, quella che contiene i resti sacri di Abramo e dei Patriarchi, forse di Adamo stesso? E se ci sono, non arderanno ancora? Perché mai qualche guardiano avrebbe acconsentito che la loro fiamma soffocasse nel buio, invece di mantenerla sempre viva?
Ogni lume ha trasmesso la sua luce a un altro, in quella o in altre grotte, dalla notte dei tempi. Forse dalla notte in cui brillò il primo fuoco, la prima face d’origine “umana”.
Giovenale nelle Satire (IV, 59-61) ricorda che ancora ai suoi tempi in un piccolo tempio di Alba, dedicato a Vesta, bruciava l’ignem Troianum: cioè che vi brillava, dopo più di dieci secoli, lo stesso fuoco acceso dal figlio di Enea e mai più spento da allora.
Dell’esistenza di un’altra fiamma “che non muore”, fu testimone oculare Italo Calvino.
Lo scrittore italiano assisté a un rito officiato dal Mohet, il sacerdote che nella Persia degli Scià conservava la face ardente consacrata a Zoroastro. Vide quel Fuoco – annota nei suoi diari – tenuto vivo a bruciare da millenni: il medesimo, “dai tempi di Ciro, di Dario, d’Artaserse”; fiamma riattizzata “da un’ininterrotta successione di braci mai lasciate spegnere”, custodita “nascostamente durante i milletrecento anni di dominio dell’Islam”.
Calvino, indagando le millenarie pratiche dei seguaci di Zoroastro, introduce allora un argomento “metafisico” che è utile riprendere. In che cosa il fuoco degli adoratori di Ahura Mazda si distingue da tutti gli altri falò, da qualsiasi altro incendio?
In senso puramente “religioso”, si potrebbe rispondere che questo è un fuoco “sacro”, quindi, più “puro”.
Il Mohet deve munirsi, durante la liturgia, di un camice e un berrettino bianco, nonché di una maschera bianca di tessuto, che gli copre la bocca “per evitare che il fuoco sacro sia contaminato dall’alito umano”. Ma: “se la purezza è nel fuoco, come si può purificare il fuoco? Bruciandolo? È un fuoco messo a fuoco questo cui i Mazdeani recitano le loro preghiere? Una fiamma data alle fiamme?”.
Si darebbero casi, insomma, di “fuochi al quadrato”, moltiplicati per se stessi, come i numeri dell’aritmetica?
L’Islam parrebbe crederci. C’è, per il Musulmano, sia un Fuoco “mangiafuoco”, sia un fuoco che si fa “mangiare”: un Fuoco che brucia e si consuma divorato dalla vampa d’un altro, superiore, e più vorace rogo.
Il Libro della Scala di Maometto parla di una Fiamma, sepolta adesso in un certo pozzo, posto nelle vicinanze dell’Inferno, che riesce a incendiare e divorare persino il fuoco. Si chiama “Alfalak”.
Nel Giorno del Giudizio, Dio la attizzerà, e l’Alfalak si sprigionerà dal pozzo: il suo fuoco “è così forte e ardente che distruggerà persino il fuoco dell’inferno, come il nostro fuoco incendia il cotone quando lo si lavora”.
[in copertina: The Torch, da “Fantastic Novels Magazine”]