VII– L’esatto contrario di quanto si vede festeggiare negli ex-voto è la tragedia incomprensibile dell’annegamento.
Se il salvataggio divino non ha funzionato, cosa succede?
Le creature affondano, soffocano, vengono risucchiate nell’abbraccio di una placenta innaturale, giù, sempre più giù, nell’indifferenza del pesce, della seppia, di cui mimano il destino rovesciato. Stavolta è il Mare che prende noi nella sua rete.
Un vasto Purgatorio, senza pace, attende gli affogati.
Se non riaffiorano, essi non otterranno mai una onorata sepoltura cristiana – quindi, le cronache e le tradizioni dei Paesi cattolici si sono spesso occupate di loro con trepidazione. Indegni del riposo eterno, questi morti – si dice –, come larve, come fuochi, appaiono sulla tolda delle imbarcazioni, per mendicare una prece.
È persino peggio quando il Mare restituisce i loro corpi. Accade, raramente. Non è superstizione: certi annegati, tirati a riva cadaveri, issati sul ponte di navi o pescherecci, mostrano, sull’epidermide, l’impronta viva di una mano.
Il fatto, in sé raccapricciante, ha trovato una spiegazione leggendaria, ancora più orrorifica.
Quando un uomo o una donna affogano, e gridano, annaspando tra i flutti, attirano qualcuno, un Abitatore delle Acque, che ha forma umana. Costui li attanaglia, con una presa tanto ferrea da lasciare un’orma profonda sulla loro pelle; poi, così artigliate, trascina le sue vittime nella fossa di mare più profonda.
Giunto laggiù – dice la credenza popolare –, quest’orrido tritone svuota i suoi cadaveri: estrae da loro l’Anima immortale, per riporla in certi vasi capovolti, da cui nessuno spirito potrà mai più sfuggire. I corpi inanimati, invece, li lascia andare e piano piano, quelli risalgono, leggeri, in superficie.
Secondo le tradizioni più squisitamente marinare, l’Uomo d’acqua, il ghermitore e custode d’annegati, è un Vecchio senza Testa. Così che si ha un bel scrutare il Mare, con apprensione o angoscia, nell’ansia di vederlo apparire durante le sue imprese. Pur essendo perennemente in agguato, presente e prossimo al punto che potremmo udirne il respiro affannoso, il Vecchio non si mostra mai ai testimoni; perché nulla di lui emerge dalla superficie delle acque. L’Uomo è senza testa.
A volte, favoriti dalla luce tagliente, ci pare di veder affiorare dai marosi la sua mano avida e unghiuta. Ma è un’illusione.
Come è avvenuto che, essendo privo di lineamenti, il Pescatore d’Affogati sia stato riconosciuto anche come “Vecchio”, è un cospicuo mistero.
VIII– È probabile – lo apprendiamo da Alberto Savinio (Nuova Enciclopedia) – che “Mare”, nel significato originario, voglia dire “cosa morta, dalla radice Mar, morire”, in sanscrito Maru , che di solito va tradotto con “deserto”.
L’etimo congiunge quindi i due estremi, la massa diluviante d’acqua degli oceani, e le sterminate, desolate regioni del pianeta prive d’acqua; il mare senza sabbia e la sabbia senza mare.
Entrambi “deserti” di uomini e vita “in superficie”, e quindi: analoghi, simili al mondo infero della morte, che tutto inghiotte e occulta nei suoi abissi.
Il Mare come le dune di polvere – ustionate dal sole, scheggiate dal vento incessante –, è fonte di miraggi, di illusioni; come la sabbia mobile è subdolo e invitante. Quando si apre? Per accogliere nelle sue viscere gli affogati, per digerire zattere e relitti, per vomitare mostri sulla costa. Il mare tutto spazza, ingurgita, spolpa e ripulisce, proprio come la morte: e se fosse per lui, proprio come la morte, non restituirebbe nessuno.
IX– Tra tutti gli epitaffi che ingombrano l’epigrafia antica, mi è particolarmente caro uno, in forma di preghiera, con cui, mentre la sua nave colava a picco, un marinaio punico nobilitò i suoi ultimi istanti. Lo trovo citato in Borges (Sette Notti).
Dice: “O Madre di Cartagine, restituisco il remo”.
È anch’esso un ex voto, ma stavolta l’uomo, che tra poco lascerà la vita, non si rivolge ad altra Divinità che non sia il Mare. Per placarlo e chiedere quiete, non salvezza.
Socchiudiamo il Libro del Tao, per leggere: “Quando le creature hanno avuto il lor rigoglio, / ciascuna fa ritorno alla sua radice. / Tornare alla radice è quiete, / il che vuol dire restituire il mandato, / restituire il mandato è eternità” […]
Fino allora saldo nelle correnti, impavido nelle tempeste, vigoroso nelle bonacce, il modesto marinaio di Cartagine ha governato il suo destino mulinando e timonando il remo dove la propria volontà o quella del padrone lo portava. Ma adesso, morendo, rende le insegne e accetta la deriva.
“Abbandonati al mare senza la nave, il mare ti dirà che cosa sei” – ha verseggiato ‘Attar, nel suo Poema Celeste.
È lo stesso compito sovrano, credo, che ha la Morte, per tutti noi.
X– Più misericordioso della Cristianità, crede, l’Islam, che il moto del Mare equivalga a una preghiera, incessante, che esalta il Signore Iddio.
Per questo, immagino, è così difficile rappresentare il Mare in una pittura che non sia, anche, un ex voto.
O in un racconto che non sia, anche, soprannaturale.
E, in casi obbligati, un racconto dell’Orrore.
Adan Zzywwurath – alias Franco Porcarelli
(autore de “Il Matrimonio del Mare e dell’Inferno”)
[in copertina: La grande onda di Kanagawa, di Hokusai]